Articolo 18

Le riflessioni di Michele Paolo Pastore

Complice il sole di agosto, ritorna in primo piano la “querelle” sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Tutti, da chi vorrebbe abolirla a chi vorrebbe revisionarla, paiono concordare sulla necessità, a distanza di molti anni dalla sua emanazione, di una manutenzione della norma.

Credo che ancora una volta valga la pena contestualizzare la situazione.

Con l’adesione all’Euro di inizio secolo, il nostro Paese ha perso una delle leve su cui poter riequilibrare la propria competitività: ha rinunciato alla possibilità di poter svalutare la propria moneta.

L’alternativa rimane il miglioramento della produttività e la conseguente riduzione del costo del lavoro per singolo prodotto o servizio offerto.

Su tali presupposti si è inserita la crisi internazionale che ha contribuito, come un catalizzatore, a ridurre gli investimenti e quindi a bloccare quel ciclico rinnovamento tecnologico in grado di garantire il mantenimento di adeguati standard produttivi. Nel nostro paese più che in altri ci siamo quindi ritrovati ad affrontare un mercato per lungo tempo recessivo potendo incidere sull’unica leva rimastaci: la riduzione del costo del lavoro.

Gli effetti sono ormai cronaca: disoccupazione a due cifre, aumento del precariato e infine aumento esponenziale delle ore lavorate negli ambienti maggiormente professionalizzati. Fenomeno quest’ultimo sottovalutato: la mancanza di tempo disponibile limita la formazione (quando non considerata un costo) e incide sulle possibilità di autoformazione del singolo.

In estrema sintesi stiamo diventando poveri e contemporaneamente degli “ignoranti di ritorno”.

La fotografia dell’attuale situazione occupazionale e il contesto recessivo ci portano a pensare che l’eliminazione dell’art. 18 non potrebbe che accelerare la mobilità occupazionale (cioè i livelli di precariato); il contesto recessivo contribuirebbe ad aumentare la concorrenzialità dell’offerta di lavoro, andando ulteriormente ad abbattere i salari medi.

Diventa facile intuire che riducendo ancora le disponibilità finanziarie delle famiglie, dovute all’ulteriore calo dei salari, e, soprattutto, aumentandone l’incertezza sociale dovuta all’ulteriore precarizzazione del lavoro, difficilmente (e la parola “difficilmente” in questo caso è un eufemismo) si potrebbe pensare ad una ripresa dei consumi delle famiglie, salvo compensarne la riduzione con un aumento contestuale degli investimenti o della domanda estera.

Rifiutandoci di credere che chi  propone l’abolizione dell’art 18 della legge 300 del 1970 non sia consapevole degli effetti noti e descritti, ci viene da pensare alla solita provocazione elettorale, fatta per acquisire le simpatie di un’ imprenditoria che con un provvedimento del genere avrebbe solo modo di sfogare sui propri dipendenti la propria rabbia repressa per un sistema politico ed economico che non funziona.

Ancora una volta la realtà delle cose ci riporta alle riflessioni che ormai ripetiamo da anni e che ci preme riepilogare.

1) Il problema non è l’art 18, ma la competitività del paese e la capacità di “stare” sui mercati.

2) L’incapacità della politica di incidere sull’economia del paese ha sinora trovato parziale giustificazione nella struttura delle istituzioni e nella incapacità decisionale degli organi politici. Le riforme in corso per un cambio della governance, quando operative, saranno solo il prerequisito per poter effettuare le opportune scelte economiche per il paese.

3) Nonostante i cambiamenti e le accelerazioni della politica dell’ultimo anno, occorre rimarcare l’assenza di una strategia di medio periodo e di una politica industriale per il paese. Gli interventi continuano a succedersi in funzione delle esigenze dell’immediato definite dal susseguirsi dei dati economici nuovamente recessivi per l’intera Eurozona.

4) Il debito pubblico italiano continua ad essere una zavorra ingestibile per i nostri conti pubblici e per la fiscalità di cittadini e aziende, ma al momento non si vede una ipotesi di significativa riduzione dello stesso. La praticabilità di tale ipotesi esiste e può essere attuata senza incidere sulla fiscalità attraverso la cessione di beni dello Stato.

5) Il sistema finanziario va riformato: occorre abbinare correttivi normativi e introdurre meccanismi e istituzioni in grado di sopperire alla scarsità di finanza da parte degli istituti di credito nei periodi recessivi.

6) Le palesate e futuribili riforme della Pubblica Amministrazione e della Giustizia Civile da sole non basteranno a far ripartire i consumi delle famiglie, gli investimenti e quindi l’economia del paese.

 

Come quando andiamo a fare la spesa in un ipermercato, veniamo trasportati in un percorso obbligato che ci sollecita prioritariamente all’acquisto dell’inutile, lasciando i generi di prima necessità alla fine del percorso. Una brava massaia sa che deve procedere in modo inverso, raggiungendo prima i reparti dove può trovare cibo e prodotti dell’igiene, per poi tornare, potendo, agli altri generi di consumo e infine al superfluo.

Se la politica non è più in grado di assumere il ruolo del buon padre di famiglia, che almeno sappia fare la parte della buona massaia, dandosi priorità coerenti con le prime necessità del paese: politica industriale, riduzione delle fiscalità alle imprese e alle famiglie, taglio del debito pubblico e investimenti per il recupero della produttività, riforma del sistema finanziario e quindi recupero dell’occupazione. Solo allora, sotto il caldo sole di agosto, potremmo permetterci il lusso di dissertare sulla possibilità o meno di riformare l’art. 18.

 

 

 

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Articolo pubblicato il 30/08/2014