La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

Quando Torinesi e Piemontesi avevano il coltello facile

Può sembrare strano ma nel passato coltelli, coltellate e accoltellatori hanno rappresentato un problema anche nella nostra regione. Lo dice una fonte autorevole, il funzionario di polizia Giacinto Chiapussi, futuro questore di Torino nel 1861. Nel suo opuscolo pubblicato nel 1851, intitolato “Alcuni cenni sull’Amministrazione di Sicurezza Pubblica”, Chiapussi afferma che la legge di Pubblica Sicurezza deve adattarsi al carattere delle popolazioni e quindi a suo giudizio «… l’abbondante uso del vino e certa inclinazione battagliera nel nostro popolo richiedono qualche legislativa precauzione nel permettere l’uso di alcuni coltelli lunghi ed acuti, tuttoché non di genere proibito. Forse molti funesti casi non sarebbero a lamentarsi».

 

Vino e coltello hanno costituito in passato un binomio tipico dei giorni di festa, se ne è occupato un professore dell’Università di Perugia, Giancarlo Baronti, studioso delle tradizioni popolari, nel suo libro “Coltelli d'Italia” (1986 e 2008). Spiace dirlo, ma la maggior parte delle notizie sui coltelli del Piemonte, sia per quanto concerne i rituali di violenza sia per le tradizioni produttive nel mondo popolare, derivano da questo libro del professor Baronti.

 

Ciò premesso, nelle campagne e nelle montagne del vecchio Piemonte, la cronaca giudiziaria ci presenta una serie interminabile di feste finite tragicamente, quando il vino ha scatenato il risentimento che deriva da diverse declinazioni emotive: prepotenza, gelosia amorosa, vecchie inimicizie familiari, rivalità tra paesi e tra borgate dello stesse paese...

 

In Torino, lo scambio di coltellate appare come fenomeno più grave, perché ripetitivo e sistematico, visto che avviene ogni domenica e che le persone coinvolte che non sono malavitosi abituali ma, molto spesso, giovani operai avvinazzati che “santificano” la domenica a coltellate. E quando i cattivi operai fanno la “lunediata” (o “lunediana”), cioè prolungano al lunedì l’ubriacatura della domenica perdendo la giornata di lavoro, questa bisboccia, come quella della domenica, si conclude spesso con risse, ferimenti, accoltellamenti.  

 

Un esempio lo vediamo sulla «Gazzetta Piemontese» del 25 gennaio 1869, dove si annuncia che la Corte d’Assise di Torino giudicherà il giorno seguente Giuseppe Romero, detto Tartaglia, nato a Pinerolo il 2 aprile 1849 (quindi non ancora maggiorenne!) e residente a Torino, garzone muratore, imputato di omicidio volontario. Romero, nella notte dal 11 al 12 ottobre 1868, oltre la Barriera di Nizza (piazza Carducci), ha colpito con una coltellata mortale Giacomo Losero, dopo un diverbio avvenuto nella Cantina di Settime d’Asti.

 

Questi scambi di coltellate, conseguenti a solenni e sistematiche ubriacature domenicali, rappresentano per Torino un gravissimo problema. Ma per contenere questo fenomeno cosa si fa, oltre a invocare severi provvedimenti da parte della questura torinese?

 

Se ne occupa negli stessi anni la filantropia laica. Lo scrittore e commediografo torinese Luigi Pietracqua (1832 - 1901), massone, scrive la commedia popolare moraleggiante “’L cotel” (Il coltello).

 

Così ne parla il critico teatrale della «Gazzetta Piemontese», il 10 aprile 1871: «Abbiamo il piacere di registrare due successi del nostro amico Luigi Pietracqua uno felicissimo al teatro Rossini col dramma popolare ‘L cotel [… dove] l’autore volle dimostrarci le tristi conseguenze di quella brutta abitudine che hanno i nostri popolani di recar seco sempre come fido loro compagno quell’arma micidiale che è il coltello, la quale abitudine congiunta all’umore collerico ed alle prepotenti tendenze del nostro popolino, massime quando un po’ di ebbrezza s’aggiunge ad eccitarne il sangue, è cagione di tante disgrazie.

 

Ci ha egli messo innanzi un uomo che sarebbe un buon lavoratore ed un bravo padre di famiglia, se il suo prepotente temperamento e la smania di trattare quell’arma per imporne altrui, per non lasciarsi, com’egli dice, soverchiare, non lo conducessero ad uccidere il suo benefattore, e finire i suoi giorni in galera rovinando affatto moglie e figlioli.

 

Vi hanno delle scene bellissime, piene di effetto; l’ultimo atto soprattutto che si svolge alla Corte d’Assise è d’un’efficacia angosciosa […].

Il Pietracqua poi pensa anche ai rimedi di questo flagello delle nostre popolazioni, e mentre non rifiuta certi provvedimenti di precauzione come sarebbero la determinazione dei capifabbrica di esigere dai loro lavoranti che rinunzino a quell’arma, ed anche qualche disposizione di legge che ne punisca più severamente il porto, per tagliare il male alla radice non confida che in un rimedio molto più giusto e sicuro, ma lento senza fallo: l’istruzione e l’educazione del popolo.

 

Bravo Pietracqua! Ecco un dramma pregevolissimo, ed ancora più ecco una buona azione. Il pubblico applaudì di cuore ed unanime; e certo se non si può sperare che con codesto il male sia guarito, siamo pur tuttavia persuasi che alcun poco ciò conferirà, se non altro, a far pensare al rimedio».

 

Così si conclude la lunga recensione della «Gazzetta Piemontese», ulteriore dimostrazione del fatto che, a quel tempo, destava grandi preoccupazioni il comportamento aggressivo e litigioso degli operai torinesi che troppo spesso ricorrevano al coltello.

 

La commedia “’L cotel” di Pietracqua (che in tempi più moderni è andata in onda su Rete 3, il 12 marzo 1982) si collega strettamente ad una iniziativa più concreta: la creazione della “Società contro il coltello”.

Ma di questa parleremo un’altra volta.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 27/08/2014