"Cancellare Mussolini? Meglio studiare che demonizzare"

Le riflessioni del Prof. Aldo A. Mola

Ogni rivoluzione impone un nuovo calendario. Lo fece Cesare, che riordinò il pasticcio imperversante nella Repubblica romana. Nel 1582 papa Gregorio XIII (non sempre i pontefici sono nemici della scienza) aggiornò il calendario cesariano. Giunto al potere, Lenin regolò l'orologio della Russia sovietica su quello occidentale, mentre la chiesa ortodossa continua a celebrare le proprie festività secondo il calendario giuliano.

Di più (meglio o peggio?) fecero la Convenzione repubblicana francese, che pretese di datare la storia dal settembre 1792, sostituì le settimane con decadi e cambiò il nome dei mesi. Per celebrare la Rivoluzione fascista, il 31 dicembre 1922 Benito Mussolini deliberò il conio di monete con il fascio littorio. Poi l' “era fascista” sostituì quella “volgare” (cioè datata dalla nascita di Gesù Cristo), che a sua volta aveva soppiantato quella “ab Urbe Còndita”, cioè “dalla fondazione di Roma”.

L' “epoca fascista”fu solo una increspatura nella plurimillenaria storia d'Italia. Molti, però, se ne entusiasmarono e acclamarono (non solo in Piazza Venezia e nella contigua piazza Madonna di Loreto, nome premonitore) “Benito, Benito”, “Duce, Duce”... Era normale per un Paese che usciva da una catastrofe, che oggi il cittadino stenta a comprendere come possa essere accaduta: i 620.000 morti e 1.200.000 mutilati e invalidi nella Grande Guerra.

Nel 1924 l'Italia ebbe un governo stabile con il “listone nazionale” che impastò “sansepolcristi” della prima ora, uno diverso dall'altro, fascisti recenti e altri nuovi di zecca, liberali, cattolici, democratici, socialriformisti, presi a bordo per far massa, comprese personalità di primo piano, come Enrico De Nicola, non ingenui sprovveduti. Il listone ottenne il 66% dei voti e due terzi dei deputati.

Fu la grande ora di Benito, che tendeva la mano al Partito socialista dal quale proveniva. Gli tagliò la strada la salma di Giacomo Matteotti: ucciso in circostanze e per motivi tuttora oscuri. Il “petrolio libico” e il “gioco d'azzardo” sono piste suggestive ma per nulla convincenti (lo ricorda Enrico Tiozzo in La giacca di Matteotti e il processo Pallavicini).

Come tanti altri prima e dopo di lui, il “duce” aveva elogiato l'uso della violenza nella lotta politica, ma, ormai capo del governo, non era così sprovveduto da ordinare l'uccisione di un deputato chiassoso ma di peso secondario, come ormai era Matteotti, umiliato alle elezioni nel suo collegio. Le opposizioni si avvolsero nella nebbia dell' “Aventino”: lasciarono l'Aula e così gli spianarono la via, perché un Paese ha comunque bisogno di un governo.

Perciò chi non l'aveva già fatto s'affrettò a dichiarare Mussolini cittadino onorario, padre della patria, salvatore della lira, della pace, dell'umanità. Pio XI, predecessore di papa Francesco, lo definì “uomo della Provvidenza”. Quando non parlano ex cathedra anche i papi possono sbagliare.

Ora, nel 2014, secondo alcuni, i Comuni che conferirono la cittadinanza onoraria al duce dovrebbero revocargliela: una proposta destinata a suscitare un vespaio di polemiche insulse e discussioni anacronistiche. Se davvero se ne volesse discutere, si dovrebbe ricordare che non è mai esistita alcuna “marcia su Roma”: il 31 ottobre 1922 nacque un governo di unità nazionale perché bisognava voltar pagina con una Camera politicamente inetta, a conferma che il suffragio universale di per sé è un cerotto sulla piaga in assenza di equilibri istituzionali.

L'Italia odierna non ha tempo da perdere in beghe artificiose, inventate per fini strumentali, in caccia di voti di ingenui. Però la damnatio memoriae è una sorta di febbre terzana. Torna quando meno te l'aspetti. Quasi sempre sotto elezioni e sempre per catturare il consenso degli ignari.

Ma se si dovesse usare lo smacchiatore per il passato ingombrante o che “non passa”, domandiamoci perché a Torino, che a Caio Ottaviano Augusto non intitola alcun luogo, vi sono vie dedicate all'imperatore Adriano (colto quanto pervertito), al generale Antonio Baldissera, colonialista, e a Marco Ulpio Traiano, che annientò i Daci, peraltro alcolizzati, e festeggiò la vittoria con mesi di sanguigne baldorie al Colosseo. Bologna celebra ancora Stalingrado, il nome di una città che in Russia è stato cancellato mentre da noi è sempre garanzia dura e pura di “Avanti popolo, alla riscossa/ bandiera rossa la trionferà/evviva il comunismo della libertà...”.

Roma è ancora orgogliosa della via intitolata a Togliatti, che alla corte di Stalin riteneva giusto far soffrire i militari italiani prigionieri dell'URSS, per togliere per sempre all'Italia la voglia di combattere contro la patria del socialismo? La Capitale ha anche una stradina dedicata al giurista Gaetano Azzariti. Come ricordano Mario Avagliano e Marco Palmieri nel documentatissimo volume Di pura razza ariana (Baldini&Castoldi), Azzariti fu presidente del Tribunale della Razza nella fase più tetra del regime e nel 1957 ascese a presidente della Corte Costituzionale della Repubblica. Da un regime all'altro.

Ogni epoca ha i suoi eroi eponimi. Ma se ogni stagione usa un pennello per cancellare il passato e un altro per dipingere il nuovo, ogni pochi mesi si dovrebbe rifare la toponomastica non solo per presunto cambio di “repubblica” (siamo alla terza?) ma a ogni legislatura, se non a ogni nuovo governo.

Montare la memoria a ore, come fosse un orologio a molla, comporta gravi rischi. Da una parte abbiamo i luoghi comuni di cosa. A Torino, per esempio, Piazza Castello quale Castello vuol ricordare? La Reggia dei Duchi e dei Re di Savoia o il castello di carta della Regione Piemonte? Mille anni contro una quarantina, non sempre esaltanti. E a Roma Palazzo Madama, dove ha sede quel Senato che alcuni giovinotti vorrebbero spazzare via, quale Madama ricorda?

La proposta di cancellare Mussolini da cittadino onorario di Torino dovrebbe accompagnarsi a quella di oscurare via Giulio Cesare, che sottomise i Galli e ne fece assassinare il re, Vercingetorige, e soggiogò la Bitinia ma soggiacque volentieri al suo re, Nicomede. E così a Roma si dovrebbe raschiare ogni traccia di Augusto (che, con buona pace del FAI, annientò i Salassi nell'attuale Valle d'Aosta e dominò con durezza i Liguri) a tacere di tanti altri personaggi il cui nome è nel libro nero della storia. Anziché di rimozioni del passato, l'Italia attuale ha bisogno di più memoria.

Depennare il nome di Mussolini dagli albi dei cittadini onorari è un rito infantile; tempo è venuto, invece, di domandarsi perché sia asceso al potere e come, malgrado tutto, ci sia rimasto per vent'anni.

E' una domanda che rimbalza sui cattolici dell'epoca e sui comunisti a quel tempo proni a Lenin, a Stalin, a Trotzky , celebrato anche “a destra” solo perché venne fatto accoppare da Stalin in un duello mortale fra criminali senza scrupoli. E riguarda anche i “democratici”. Nel 1919-1925 stettero alla finestra, dal 1943-1945 s'inventarono una verginità perduta vent'anni prima e addebitarono la loro pochezza alla perfidia di Vittorio Emanuele III.

D'altronde già immaginiamo con quale “gloria” finirà questo “salmo” contro Mussolini: nelle fotografie pubblicate a corredo della richiesta di revocargli la cittadinanza onoraria il duce figura a fianco di Giovanni Agnelli, quello vero, il fondatore della FIAT, senatore del regno, nel 1945 privato dei diritti politici e civili.

Negli ultimi mesi di vita si faceva condurre a sbirciare di lontano la fabbrica alla quale aveva dedicato la vita ma dalla quale era stato estromesso. Esule in patria. Tenere in ordine il calendario e le lancette della memoria evita di ridurre la storia a ore piccole e corte: orine, anziché epoche. Nel tempo dell'equinozio di primavera v'è bisogno di aria, luce, pulizia.

 

 

 

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Articolo pubblicato il 28/03/2014