Sognare Torino città d'arte nel bar della GAM, sedotto dall'andar della mente

Torino città cioccolatini e cinema, motori e officine, con l'andar del mondo, ha perso molte tipicità e ora si destreggia, allineata col panorama decadente di un'Italia che ha obliato, maltrattato e offeso le sue spinte creative ormai da tempo È un argomento con le metastasi, è storia complessa. Il soggetto che viene appresso è quella nuova e declamata veste della città che cerco attorno ruotando il collo come fosse un bullone: Torino figlia di Juvarra, salotto barocco d’un tempo che fu. Di lei giornali e tv inneggiano  alla sua nuova metamorfosi in metropoli della cultura. 


 

Dopo mamma Fiat, genitrice d’auto dignitose che fecero ricchezza per pochi, ma lavoro per tutti, oggi Torino mamma cultura, fa la fame, se la tira e non sforna lavoro né genialità all'altezza del suo preteso ruolo intellettuale.  

Cose ragionate un venerdì, dopo un toast al bar della GAM.  

Venerdì 24 gennaio ore 15. Raggiungo un tempio dal nome altisonante: Galleria d'arte moderna, per una passeggiata fine 800, tra atmosfere luminose d’una Francia di giovani donne, fiumi, fiori e primavere. La mostra di Renoir: impressionismo, sfondi sfumati, occhi, mani che sfiorano il piano, momenti rilassanti fissati con olio e pastello. Fotografie pennello e sentimento di tempi andati e delle sue oltrepassate genti.  


 

Sono appuntamenti importanti, momenti di riflessione, occasioni per sostare davanti alla cornice, capire, apprezzare, magari anche dissentire.  

Sono luoghi per l'anima e la curiosità, laddove una tela blocca, cattura, un'altra sfugge, è un viaggio tra le inafferrabili pieghe di un uomo e le sue opere, oggi, desiderio, investimento, forse più che sentimento.  

Visitare una mostra non è un pomeriggio al cinema, non è un momento mondano dove sfoggiare lesta cultura scolastica, esibire linguaggi intellettuali, ostentare concetti. A mio tenue parere, è entrare in una casa del tempo dove soffermarsi a dialogare con qualcosa che sta a metà tra la testa e il cuore.  

È un bel risvolto poi, tornare verso casa con le tele nella mente, pensarci su, quando s’è fatto a chiacchiere con quel momento colori, odori, ossidi, imbrogli, impulsi, luoghi, volti e pennelli. 


 

Venerdì 24, alla Galleria d'arte moderna della città di Torino, una sessantina di cornici si offrono dai muri, mentre attorno: gente, occhi, commenti, nasi orientali ed europei conficcati nei ritratti, a danzare in città oppure in campagna, a fissare giovani e giocose bagnanti spoglie, a svicolare lo sguardo severo di madame Charpentier.  


 

La Galleria era quasi piena, eppure, a un certo punto sono stato accarezzato da un senso di disagio. Niente a che vedere con Pierre-Auguste, ma percepivo cosa c'era là fuori, riguardava le aspirazioni culturali di Torino città.

Terminato il tour, erano le ore 19, alle 21 avevo un rendez-vous in un piccolo teatro. Un balletto: movimenti, musica e danza. Un'altra forma d'arte, giovani ragazze molto brave, ma dal nome meno risonante.


Sono invalido, mi muovo lentamente, alle 19 prende un po' di fame, alla GAM di Torino, città di storici caffè odore legno e cuoio, esiste un bar: fermiamoci qua! È stato quasi un comodo obbligo entrare, ordinare due toast.

Non c'era nient’altro per lo stomaco in menù. In quel momento, la mente ha preso fuoco, il respiro s'è inceppato, l'occhio ha visto tutto ed ho immaginato.

Ho immaginato che il bar non era vuoto, ma zeppo di artisti, scrittori, poeti, di modelle prosperose a far baccano tra loro, di studenti a ragionar di rime, di birra, di una notte “sesso in soffitta” o di un colpo di scalpello.


Ho immaginato altra gente a fondersi nell'ambiente e godere di un'atmosfera libertina, passionale, travolgente: cittadini, amici degli amici, turisti inglesi, russi, cinesi, tutti confusi in un covo unico, vivo, denso e nebbioso, odore legno e fumo, almeno lì, ancora tollerato.


Ho immaginato vino e salumi, formaggi, coltelli, spaghetti fumanti, rumore, cappelli, risate più che lamenti. Ho immaginato un locale gremito e vivente, fuori: suoni di chitarra e sax a intonare languidi blues, mentre tanta gente cammina nella via. Ho immaginato un punto di riferimento per tutta la città, un bistrot magico, aperto fino alle tre di notte per otto giorni alla settimana, trincea da cui far la guerra alla tristezza, alla rozza, cattiva creanza dei nostri tempi, al buco nero della creatività, al funerale del libero pensiero, alla schiavitù ideologica di molta società.


Avevo un mezzo appuntamento col Maestro Ezio Gribaudo per abbeverarmi all’inesauribile fontana della sua conoscenza, purtroppo non è potuto venire, ma in quel momento fantastico, ho immaginato fosse lì, e narrargli le mie visioni. Ho immaginato che ne avrebbe aggiunte altre, pittoresche e suggestive, e che avremmo condiviso un magnifico, melanconico momento a vedere quel che non c'era, e chiedersi: perché non c'è?


Alle 19.30 il bar triste e vuoto, odor alluminio e plastica, chiude i battenti. Il bar della GAM, prestigioso luogo d'arte della grande città.

L'architettura è la madre delle arti. Non c'è un nuovo, dignitoso monumento in giro, non un museo opera d'arte, degno recipiente all'altezza d’ospitarne altre, non v’è un suggestivo quartiere in città, solo gente di fretta che va.

Sono uscito nel freddo della sera, poca gente intorno, nessun artista sotto gli ippocastani a discutere animatamente, mentre più in là, nessun suono di percussioni e gentili canti.


Molte austere, silenziose, grosse e nere autovetture, nuovo simbolo della bella società, parcheggiate tra le piante e nelle vie, mi hanno visto uscire, e poi: traffico, semafori, poca cortesia, velocità.

Arrivando in anticipo, ho raggiunto un modesto teatro in barriera di Milano. All'interno: gente allegra e sorridente, il piccolo bar aperto, odore di caffè.

Alle 21 è iniziato lo spettacolo: storie di guerra e di genocidio espresse con la danza. Soggetto curato con trascinante sapienza. Altri quadri, altri messaggi ad intrecciarsi sul modesto palco: coreografie minimaliste, ma penetranti, gesti armonici e corpi complici a raccontare storie con euritmie e sguardi. Ho apprezzato molto; spettacolo di artisti vitali, abili e molto coinvolgenti.


C'era poca gente, come capita ahimè, troppo spesso in questi casi: parenti e amici, ma alla fine erano tutti contenti, mi hanno accolto come fosse arrivato qualcuno d’importante, abbiamo imbastito progetti a teatro e poi, sono partito.

Sulla strada del ritorno mi son posto domande su Torino città della cultura, ricordando la mia gioventù quando c'era un covo di musica, spettacolo e dibattito in ogni quartiere, quando ci si conosceva tutti e c'era adunanza nelle strade, quando si suonava la chitarra sulla panchina al calar della sera.


Sulla via del ritorno ho riflettuto sul caffè degli artisti frutto della fantasia, sul triste bar della GAM orario gestione pubblica, sul teatro vuoto e contento, su dove va codesta civiltà. E mentre stavo quasi dormendo, ho pensato alla città che non c'era, sognandone un’altra: lustro, monumenti arditi, vivacità, gente placida e sapiente ad aggirarsi tra strade intrise dell'arte di vivere in un nuovo giorno di luce, perché è stata notte per troppo tempo!


Carlo Mariano Sartoris,

www.handyscap.it

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Articolo pubblicato il 14/02/2014