“L’Ultima Foglia”, silloge poetica di Giorgio Enrico Cavallo

Intervista ad un giovane scrittore che si affaccia al mondo della poesia

Il 7 dicembre al ristorante/albergo San Giòrs di via Borgo Dora 3 si è svolta la presentazione de “L’Ultima Foglia” (Genesi editrice, Torino, 2013) la silloge poetica di Giorgio Enrico Cavallo, giovane scrittore che si affaccia al mondo della poesia con questa prima pubblicazione.  


 

Perché pubblicare un libro di poesia, al giorno d’oggi?  


 

Al giorno d’oggi c’è una necessità incredibile di poesia; direi che c’è l’urgenza di far tornare la poesia nelle nostre abitudini quotidiane. La nostra società è infatti afflitta da un’estetica del brutto che esalta i lati negativi di ogni cosa, e ne nasconde la meraviglia e la bellezza. In ogni forma d’arte si assiste a questo decadimento morale, che non è progresso, ma anzi è una regressione della cultura umana: architettura, pittura, musica e ogni altra forma di espressione dell’ingegno umano oggi propongono quasi esclusivamente modelli brutti, sporchi, volgari. Ma noi non abbiamo bisogno di altre brutture, con tutti i problemi che gravano sulla nostra società. Io credo che, oggi, questa sia la missione del poeta: essere voce della bellezza.  


 

Perché il suo libro si chiama “L’ultima foglia”? 


 

I motivi sono molti, alcuni molto intimi, altri invece più “letterari”. Letterariamente, come bene ha ricordato il mio editore Sandro Gros-Pietro, la metafora della foglia è antichissima. Proprio perché ho una forte coscienza di quello che scrivo, mi sono domandato se potevo in qualche modo portare un cambiamento, seppur piccolo, in quella che l’arte di oggi. E mi sono risposto che dovevo provarci. Ecco perché ho scelto di scrivere un libro che è l’ultima foglia della poesia che fu, e al contempo è anche la prima di una nuova esperienza poetica che, se avrò la forza, continuerò a scrivere.  


 

Quali temi emergono con frequenza in questa silloge? 


 

Tutti quelli dei quali, oggi, è necessario parlare. In primo luogo, la famiglia: non a caso, “l’ultima foglia” è impersonata da una mia anziana parente, la cui storia apre la raccolta. Oggi la famiglia è in pericolo, e i continui attacchi alla sua solidità ed al suo ruolo di base sociale devono cessare. Io mi permetto di ricordare al lettore la mia esperienza personale, ricordando quanto la famiglia sia stata importante nella mia vita. La mia famiglia è piemontese: e dunque è al Piemonte che dedico molte pagine del mio libro, perché senza ricordare le nostre radici, noi non potremo andare da nessuna parte. Aggiungo una forte attenzione per l’ambiente, oggi minacciato come mai nella storia umana: la Terra è di tutti, e va protetta. Infine, unisco al tema della crisi sociale, economica e morale che attanaglia l’Occidente anche una forma di redenzione, che è possibile: ed è la religione. Una ultima sezione, dedicata alla poesia cristiana, aiuta il lettore a finire la silloge con un messaggio di speranza. 


 

Il suo libro però è molto particolare, anche per la forma delle poesie. Sono per lo più in rima, e gran parte di esse sono sonetti. Perché scrivere ancora in questo modo, ormai considerato non più attuale? 


Per due motivi. In primo luogo, perché non è vero che usare metro e rima sia una scelta “fuori moda”: chi ha deciso di rompere con questa tradizione lo faceva con un motivo ben preciso, che era proprio di frattura con il vecchio modello di poesia. Ma oggi, come dicevo, è urgente recuperare la bellezza: e le più grandi opere poetiche della nostra tradizione sono sono in metrica. Solo il verso puro permette di avere particolari effetti di musicalità e di preziosità, che devono contraddistinguere la poesia: il poeta non è uno scrittore che “va a capo ogni tanto”: il poeta è chi scrive in versi. Ciò non vuol dire che io scelga di cancellare aprioristicamente quasi un secolo di poesia: anzi, ritengo che il mio ritorno alla tradizione si colleghi a questa esperienza artistica senza soluzione di continuità. Vi è poi un secondo motivo, di rispetto verso il lettore: chiunque scelga di leggere questo libro, toccherà con mano che i miei versi non sono campati per aria, ma sono frutto di studio; di tanto studio. Se avessi scelto una forma metrica libera, il rischio sarebbe stato quello di mettere le mie poesie tra le mani di lettori che potevano non apprezzarne la profondità; perché in moltissimi casi chi si dissocia dal verso tradizionale non viene considerato “poeta”: viene derubricato al livello di colui che, non sapendo scrivere in prosa, prova a spezzare le frasi ogni tanto, per vedere se così facendo il lavoro vien fuori migliore. E io voglio rispettare il lettore, e fargli capire che la poesia è una cosa seria.

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Articolo pubblicato il 12/02/2014