Il pil che non riesce a misurare l'era digitale

In base alla crescita del pil, il settore tecnologico è cresciuto pochissimo, ma oggi le società hi tech quotate in borsa contano sempre di più.

In un mondo che cambia sempre più velocemente, anche i sistemi per misurarne la produzione e l'ascesa economica dovrebbero adeguarsi; invece, a guardare oggi il pil globale, sembra che le cose non stiano così.

Ciò che generalmente utilizziamo per misurare la salute della nostra economia è la crescita del prodotto interno lordo, il così detto pil. Se
questo aumenta significa che l'economia è in buona salute, altrimenti che è ora di preoccuparci. Tutto ciò si basa su un presupposto molto semplice, ossia che più cose si producono e si vendono e più si è ricchi.

Nell'era industriale il ragionamento funzionava, ma in quella digitale tutto diventa differente, dal momento che buona parte delle cose
prodotte è a disposizione di tutti gratuitamente: social network, software, riviste on line, e-book, ...

Recentemente, il successo suscitato dalla quotazione in borsa di Twitter fornisce alcune cifre su cui varrebbe la pena riflettere. Twitter vale 20 miliardi di dollari, ma i suoi introiti solo 500 milioni. Inoltre, il social network ha oltre 200 milioni di utenti attivi, con circa mezzo miliardo di tweet giornalieri. Il dato strabiliante, però, è quello zero dollari che vengono fatti pagare agli utenti per usare Twitter, il che, appunto, farebbe venire meno il vecchio sistema del pil per misurare la crescita economica.

La stessa sproporzione tra il valore di quotazione in borsa e l'utilizzo gratuito del prodotto/servizio vale per altri colossi come ad esempio Facebook.

Tutto ciò ci porta alla conclusione che non è più (e solo) possibile dedurre il benessere di un paese dal proprio reddito nazionale medio, dal momento che sia la realizzazione dei siti (attraverso open source gratuiti) sia l'utilizzo dei servizi messi a disposizione dai medesimi sono praticamente a costo zero.

E' evidente che il guadagno maggiore (anzi forse l'unico) per i social network, e i siti internet in generale, risiede nell'appropriarsi dei nostri dati, e quindi delle nostre abitudini, e venderli a quelle aziende dell'economia "vera" di cui saremo i consumatori (dall'auto, alla pasta, a qualsiasi altro bene di consumo classico).

In tutto ciò, a farne le spese sono i lavoratori, che in alcuni settori vanno diminuendo (ad esempio wikipedia impiega meno persone rispetto a una casa editrice di enciclopedie e lo stesso vale per qualsiasi casa tipografica rispetto alla realizzazione di un e-book) e anche la nostra privacy che ha un valore ben più alto di quanto può misurare il pil: è la nostra libertà che non ha prezzo, o forse ora sì?




Marco Pinzuti


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Articolo pubblicato il 27/01/2014