Facebook: 20 milioni per la class action contro le "Sponsored Stories"

Il giudice Richard Seeborg ha accettato l'accordo offerto da Facebook: 15 dollari come risarcimento per ogni partecipante alla class action

Fonte: Chimerarevo.com

Chi di privacy ferisce… sborsa 20 milioni di dollari. E’ questa la conclusione della controversia legale avviata da una class action risalente al 2011: circa 600.000 persone vi avevano partecipato e richiesto un provvedimento contro Facebook che, a causa delle “Sponsored Stories” - o “Post Consigliati” -, aveva messo ancora una volta a dura prova la pazienza dei suoi utenti. Che, in quell’occasione, non sono stati zitti.

Non è il massimo dell’etica usare nome, cognome ed altre informazioni personali per proporre ad altri utenti il proprio prodotto, tuttavia il gioco – in termini monetari, ed ammettendo anche i rischi annessi – potrebbe valere la candela. Il meccanismo di targeting mirato di Facebook ha avuto senza dubbio un enorme successo ed ha rappresentato una grande fonte di guadagno per l’azienda fondata da Mark Zuckerberg e soci, successo sostanzialmente dovuto al fatto che l’annuncio si presenta esattamente come fosse un’azione volontaria da parte dell’utente in esso menzionato:l’impressione è “Jessica Lambiase ti sta consigliando personalmente di apprezzare questa pagina”, la realtà è “il meccanismo pubblicitario di Facebook ti sta facendo presente che Jessica Lambiase ha apprezzato questa pagina, esortandoti a fare lo stesso. Tutto rigorosamente senza esplicito permesso da parte dell’utente che involontariamente pubblicizza il brand o il prodotto.

post-consigliati

Riflettendoci un attimo ci si rende conto che il gioco psicologico è tutt’altro che banale e che una strategia del genere può essere “naturalmente” vincente, con buona pace – però – di chi ci mette la faccia, il nome ed il cognome. Se poi gli utenti sono minorenni la situazione si aggrava ulteriormente.

E’ esattamente il metterci la faccia che ha innervosito tutti i partecipanti alla class action, che saranno rimborsati con una somma di circa 15 dollari pro capite: il primo tentativo di accordo risale al 2012, quando Facebook propose al giudice Richard Seeborg di concludere la questione sborsando 20 milioni di dollari, ripartiti equamente tra il rimborso dei legali partecipanti ed alcune associazioni per la difesa della privacy.

Il giudice non accettò la proposta poiché il risarcimento avrebbe dovuto essere diretto ai singoli utenti. Mark Zuckerberg ci ha quindi riprovato – trovando finalmente il consenso del giudice Seeborg – con un patto sempre da 20 milioni di dollari: questa volta 9 milioni saranno divisi tra i partecipanti alla class action (circa 15 dollari a testa),  il restante denaro servirà per i rimborsi ai legali coinvolti e la donazione ad un associazione per la difesa della privacy.

Facebook ha inoltre acconsentito a modificare le possibilità di controllo sulle Sponsored Stories: in futuro potrebbe essere permesso agli utenti – o, almeno, a quelli minorenni - di escludersi a priori dalla pubblicizzazione a proprio nome di brand e prodotti tramite il meccanismo dei “Mi Piace”, un’operazione che potrebbe togliere dalle casse del social network qualcosa come 140 milioni di dollari.

Questa altro non è che l’ennesima battaglia affrontata dal colosso di Menlo Park per tutelare i propri interessi, personalmente trovo che una facoltà di scelta maggiore da parte degli utenti avrebbe potuto l’ennesimo danno d’immagine al social network, notoriamente – e ripetutamente – accusato per aver bistrattato le informazioni personali dei propri iscritti. E’ evidente che le cifre in ballo siano decisamente alte e che, per tenere in verde i conti, c’è sempre un prezzo da pagare… meglio se a discapito di qualcun altro. Semplicemente, quindici dollari.

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Articolo pubblicato il 28/08/2013