La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

Il barabba che uccide suo padre

Il giorno 24 maggio 1876, a Torino si sparge la notizia che un giovinastro di diciannove anni, Felice Peradotti, ha accoltellato a morte suo padre perché gli negava i soldi per andare a divertirsi.

 

La “Gazzetta Piemontese”, che riporta la notizia in “Cronaca nera” sotto l’ironico titolo “Amor filiale!!!”, racconta che Felice Peradotti è figlio di un proprietario di casa in via Cottolengo e pretende che il padre gli fornisca ogni giorno dieci lire per i minuti piaceri.

 

Felice ha rubato in casa e si è mostrato tanto malvagio che il padre quasi non osava negargli queste dieci lire quotidiane. Quando ha dovuto fare qualche rimostranza al figlio, questo ha impugnato un coltello ed ha ferito suo padre al ventre. Così si conclude la cronaca:

 

«Questo furfantaccio fu tosto arrestato dalle Guardie di P. S.; il ferito fu soccorso dal medico di guardia al Palazzo Civico. La ferita è molto grave. Un fratello del parricida si trova già in carcere per furto».

 

Lo stesso giornale, il 29 maggio 1876, annuncia che sabato 27,

 

«nel pomeriggio cessò di vivere quel povero Peradotti che pochi giorni innanzi veniva ferito di coltello dal proprio figlio».

 

Francesco Peradotti, di Torino, aveva 58 anni, ed è indicato come “proprietario”, cioè persona che vive di rendita.

Come si usa a quel tempo, del parricida Peradotti non si parla più fino al momento del processo, quando l’assassino fa la sua apparizione in pubblico per essere processato  dalla Corte di Assise, il 15 maggio 1877.

 

Un processo gravissimo, di quelli che non si dimenticano più da chiunque vi abbia assistito, lo definisce il cronista giudiziario Basilius, che indica Peradotti come appartenente alla categoria dei “barabba”, cioè dei giovani teppisti torinesi.

Quello dei “barabba” è un fenomeno di devianza dei giovani operai, tipico della Torino della seconda metà dell’Ottocento e dei primi del Novecento.

 

Dopo la proclamazione del regno d’Italia, a Torino si è adottato questo termine di derivazione milanese: i barabba non sono malavitosi abituali perché, sia pure in modo discontinuo, lavorano ma preferiscono ubriacarsi e attaccare briga, dimostrando per questo un impegno molto maggiore di quello profuso nel lavoro.

Il termine è abbastanza ampio, ci sono barabba più o meno cattivi: Peradotti, uccisore del padre, ne rappresenta la declinazione peggiore.

 

La cronaca di Basilius ce lo presenta così:

 

«Sul banco degli accusati siede un giovane appena ventenne, vestito secondo il costume dei barabba, con una giacchette corta di velluto, coi capelli prolissi divisi da una discriminatura nel mezzo e ombreggianti un volto di color terreo, bucherellato dal vaiolo. Gli occhi grigi e penetranti lanciano in giro delle torve occhiate. Il naso tagliato all’insù dà a tutta la fisionomia un aspetto feroce, come quello di un cane mastino. Questo giovane è Felice Peradotti, soprannominato bull dog, che è imputato di parricidio».

 

È un quadretto molto interessante, perché è una delle pochissime descrizioni dei barabba torinesi.

Noi bogianen i nostri barabba torinesi li abbiamo dimenticati, i francesi continuano a imperversare col mito dell’apache parigino.

 

Proprio un attore e regista torinese, Emilio Ghione (Torino, 1879-Roma, 1930), passa alla storia realizzando quasi 90 film dedicati all’apache Za-La-Mort, come racconta Denis Lotti nel libro Emilio Ghione l’ultimo apache. Vita e film di un divo italiano (Bologna 2008).

 

Basta divagare, torniamo al processo di Felice Peradotti!

 

In aula si conferma quanto già accennato dalla cronaca della “Gazzetta Piemontese”.

Felice Peradotti era la disperazione di suo padre Francesco: si era dato ad una vita oziosa e consumava in compagnia di altri fannulloni, non soltanto quel po’ di denaro che talvolta guadagnava lavorando come fabbro-ferraio, ma anche le somme che il padre, forse con troppa condiscendenza, gli dava ad ogni sua richiesta.

 

Un giorno il padre ha deciso di non cedere più alle insistenti richieste di denaro del figlio e questi ha cominciato con impegnare due orologi e i suoi vestiti da festa. Anche questo denaro è andato ben presto in fumo e, nella sera del 23 maggio 1876, Felice Peradotti era di nuovo a secco.

 

Un gruppo di conoscenti lo incontra e lo invita ad andare in giro con loro a bere.

Lui acconsente ma, deve andare a casa a prendere denaro e dice di aspettarlo al rondò della forca…

località «così chiamata perché una volta vi era eretto il patibolo. E Peradotti va a casa a commettere un crimine degno di patibolo».

 

Ecco il dialogo tra padre e figlio, nella ricostruzione del cronista giudiziario:

- «Padre - dice Felice Peradotti entrando in casa e chiudendo violentemente l’uscio - dammi dieci lire».

- «Io non le ho».

- «Non voglio scherzi; fuori le dieci lire».

- «Ti ripeto che sono senza quattrini» risponde il padre che intanto inizia a scendere la scala per raggiungere il cortile, perché il contegno del figlio gli mette paura.

 

Felice Peradotti raggiunge di nuovo il padre e ripete la sua domanda, accompagnandola con un pugno che manda ruzzoloni il povero Francesco.

Un vicino, Michele Cavallasca, si slancia su Felice Peradotti per trattenerlo, mentre il vecchio si rialza e dice al figlio:

 

- «Abbi pietà di me, perché mi percuoti in questo modo? Vedi: io parlo per tuo bene, ti do buoni consigli e tu…».

 

Ma il figlio non ascolta e chiede di nuovo, con voce ancor più irritata: - «Mi dai o non mi dai le dieci lire?»

 

- «Ma io non posso darti tanto denaro; io non sono un fabbricante di biglietti…».

 

- «Allora prendi questa», risponde Felice Peradotti e, liberatosi dalla stretta di Cavallasca, vibra una pugnalata al padre con una lama bitagliente lunga venti centimetri.

 

Il vecchio lancia un grido e stramazza al suolo.

 

Il figlio scappa ma ritorna pochi istanti dopo con un medico, che è andato a chiamare. Mentre il dottore presta i primi soccorsi al ferito, Felice fruga negli abiti del padre per trovare il denaro.

Arrivano in quel momento le Guardie di P. S., avvertite del grave fatto.

 

- «Padre, domanda Felice Peradotti, chi ti ha ferito?».

 

- «Sei tu mio figlio?».

 

- «Sì».

 

- «Ebbene, sei tu che hai ferito tuo padre».

 

Quando i poliziotti si apprestano ad ammanettarlo per portarlo via, Felice Peradotti stende la mano per stringere quella del padre.

 

- «Che! - esclama quest’ultimo - vorresti colpirmi di nuovo? Esci da questa casa che non è più tua».

 

- «Allora addio: chi sa se ci rivedremo più».

 

Felice esce così, accompagnato dalla maledizione del padre, morto dopo tre giorni.

 

Al dibattimento, Felice Peradotti tiene un contegno cinico e sprezzante: non versa una lacrima, non dà segni di rimorso o di pentimento. Dice che non pensava di ammazzare il padre ma, quando ripete il movimento col quale aveva data la stilettata al padre, il suo gesto appare così selvaggio e spaventoso da destare l’orrore di tutto il pubblico.

Il cronista giudiziario commenta:

 

«Io che dei processi di sangue ne ho già visti tanti e tanti, non mi ricordo di aver mai provata la commozione che ho sofferto durante questo dibattimento, e di aver visto tanti visi pallidi per l’emozione come questa volta».

 

Il Pubblico Ministero ha un compito facile nel sostenere l’accusa. L’avvocato difensore, per contro, appare in netta difficoltà, tanto più che viene incaricato della difesa soltanto all’inizio del dibattimento. Si impegna ed è tanto fortunato da riuscire a strappare ai giurati, sicuramente assai prevenuti nei confronti dell’accusato, la concessione delle attenuanti.

 

Così Peradotti non è condannato alla pena di morte ma ai lavori forzati a vita.

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Articolo pubblicato il 19/08/2013