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Politica Internazionale
Il futuro cinese dell’Afghanistan talebano
Con l’abbandono dell’Afghanistan da parte delle forze Nato, la regione medio orientale diviene sempre più cinese, ma questo potrebbe non importare alle strategie di Washington.
Articolo di Luca Fiore Veneziano
Pubblicato in data 24/08/2021

Da diversi giorni si discute dall’abbandono degli USA e delle forze NATO dalla regione medio orientale. Nulla di nuovo o di sorprendente, considerato il fatto che gli ultimi tre Presidenti americani lo andavano annunciando ripetutamente (Obama, Trump e Biden).

 

Molte delle potenze coinvolte nel “pantano afghano” vedevano ormai da tempo il ruolo esclusivamente militare di Washington come un ostacolo alla stabilizzazione del teatro. Il vuoto diplomatico ha generato mostri.

 

Tempo fa Macron disse che la Nato “era un paziente in stato di morte cerebrale”, lo criticarono tutti, ma forse aveva ragione lui. Forse, perché i veri danneggiati dal ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan sono proprio gli alleati occidentali degli Usa più che gli americani stessi.

 

Washington non ha alcun interesse a mantenere i suoi militari in medio oriente. Lo può continuare a fare benissimo con i mercenari e con gli uomini dell’ Intelligence, molto più flessibili e meno identificabili delle Forze Armate durante gli spostamenti sul territorio. Già, perché uno degli errori tattici della “guerra al Terrore” fu proprio quello di utilizzare interi contingenti militari a presidiare un territorio stabilmente contro un nemico non convenzionale, irregolare e sicuramente più rapido nei movimenti in uno scenario ostile e montuoso come quello afghano.

 

Tuttavia, molti degli errori tattici vanno attribuiti a chi la guerra l'ha iniziata e poi condotta, molto più che a coloro che volevano ritirarsi. Questo significa che il peso della sconfitta storica va più attribuito a Bush e a Obama, che non a Trump e a Biden, i quali si sono limitati a contare i danni e ad operarsi per un ritiro immediato dalla regione.

 

GLI INTERESSI CINESI NELL'AREA

 

Innanzitutto, occorre ricordare di come l’Afghanistan era già in epoca antica posizionata sulla vecchia “Via della Seta”, e anche oggi come allora è presente sul tragitto della nuova Belt&Road Initiative terrestre portata avanti dalla Cina.

 

Ci sono in Afghanistan importanti riserve di gas naturale, di cobalto, di litio, di oro, che i Talebani da soli forse non sarebbero in grado di sfruttare, ma che possono servire come merce di scambio per ottenere protezione internazionale da chi, come Pechino, si fa pochi scrupoli in termini di diritti umani.

 

Inoltre, il gasdotto TAPI (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India), che trasporterà gas naturale dal Turkmenistan attraverso l'Afghanistan, il Pakistan e l'India è considerato il simbolo del riscatto energetico di tutta l’Asia Centrale e la sua realizzazione comporterà miliardi di dollari di royalties per chiunque controlli veramente il territorio afghano e per i suoi sponsor, ovvero, di nuovo, la Cina; la quale, insieme alle mafie internazionali sembra la maggiore beneficiaria di questa situazione.

 

La presenza cinese nell’area è legata infatti a molteplici fattori d’interesse.

 

Uno dei principali consiste nella relazione che avrà la nuova “via della seta tecnologica” con la transizione “verde” di molti paesi europei e occidentali. In questo senso occorre ricordare le numerose risorse di litio presenti nel territorio afghano. Risorse su cui il governo di Pechino ha già messo gli occhi, vista l’importanza del litio per produrre materiali tecnologici fondamentali per la nuova “green economy”.

 

Il secondo interesse, consiste nel trovare un valido alleato musulmano che faccia da sponda, insieme al Pakistan, contro l’India e la minoranza musulmana perseguitata degli Uiguri (isolati così dal mondo musulmano sunnita).

 

La Repubblica Popolare Cinese attua una politica simile al vecchio Impero Celeste; ha annunciato che non manderà infatti militari nella regione, ma punterà ad inviare ingegneri e tecnici per meglio gestire lo sviluppo tecnologico. Ma se questo può apparire come un nuovo consolidamento della Cina in Medio Oriente, il tutto rischia di apparire come una “vittoria di Pirro”. Poiché potenziare la nuova via della seta senza prima avere il controllo sul Pacifico, e quindi in casa propria, rischia di essere effimero quanto vanaglorioso.

 

Questo spiega il motivo del ritiro da parte statunitense, rispetto agli inutili quanto ridicoli piagnistei europei sui diritti umani; come se la strategia degli stati si occupasse di simili amenità.

 

Gli Usa hanno infatti ben altri problemi rispetto al femminismo mancato dell’Afghanistan (non si capisce inoltre perché lo stesso non dovrebbe valere nella Penisola araba).

 

Washington mira infatti a scongiurare il pericolo russo, consolidando il Trimarium nell’Est Europa; e punta a contenere i cinesi dietro la propria linea di difesa, in modo tale da schiacciarli e non farli avanzare oltre Formosa e la penisola coreana. Per fare ciò serviranno nuovi contingenti marittimi, questa volta selezionati, e non più allargati come in Afghanistan. In questo, e solo in questo, molti dei paesi alleati NATO potrebbero trovarsi ridimensionati all’interno dell’Alleanza. E fra questi, inutile negarlo, ci siamo anche noi. Già, perché noi, insieme ai tedeschi, coordinavamo tutte le operazioni di area rispettivamente a Ovest e a Nord del Paese. Questo ritiro depotenzia sicuramente il nostro ruolo rispetto ai paesi dell’Anglo sfera, Regno unito in testa, ben presente tra l’altro nelle zone meridionali dell’Afghanistan, ovvero le più critiche e bellicose.

 

L’America quindi subisce una sconfitta tattica, ma non strategica. Le partite decisive si giocheranno, come sopra detto, in Europa Orientale e nel Pacifico.

Non tutto l’Occidente ne esce sconfitto, ma solo la parte più vulnerabile dell’Alleanza Atlantica (Italia e Germania in testa).

Tuttavia, resta il fatto che questa dell’Afghanistan è la peggiore disfatta tattico-militare dopo il Vietnam. Diverse sono le considerazioni negative ereditate da questa esperienza. Errori politici, strategici e tattici. Mancanza di coordinamento delle forze in campo. Scarsissima conoscenza delle aree d’intervento tattiche e della morfologia del terreno. Inoculazione del peggior morbo che ci può essere per un combattente: la “pacificazione”. Regole d’ingaggio assurde per le forze europee d’occupazione.

 

Differenze sociali, etniche, religiose e di lingua incolmabili. Pianificazioni tattiche su un campo di battaglia il cui avversario è un emerito sconosciuto (solo i nostri alpini sono riusciti a prevalere). Le forze armate dei paesi coinvolti non erano in grado di combattere un nemico abituato ad operare con piccoli nuclei, i quali tatticamente hanno delle capacità nettamente superiori nella conoscenza del terreno, nel rapido movimento, nell’utilizzo delle armi individuali e di reparto con coordinamento esemplare, e sopratutto senza le dannosissime regole d’ingaggio. Il tutto inserito in un contesto di guerra ibrida, asimmetrica e non convenzionale.

 

Perciò, sarebbe ora di piantarla con le foto da repertorio in cui si vedono militari che invece di combattere vanno a fare azioni insulse di pacificazione in una terra che la pace non la vuole almeno dal lontano 1840.

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